#incavince. Per la violazione del divieto di cumulo tra reddito da lavoro e pensione l’Inps può pretendere la restituzione delle somme indebitamente percepite, senza sospendere il trattamento pensionistico. Così si è espresso il Tribunale ordinario di Firenze in ben tre sentenze, accogliendo i ricorsi patrocinati dai consulenti legali dell’Inca del capoluogo toscano. Un principio ragionevole, ma che tale non sembrerebbe essere per l’Inps, il quale considera sufficiente qualsiasi somma di denaro derivante dal lavoro, durante la percezione della pensione, per azzerare tutti i ratei mensili percepiti a partire dalla decorrenza del trattamento, pur in presenza di tutti i requisiti necessari.

La prima pronuncia (n. 989/2020), emessa il 1° marzo 2021, si riferisce al caso di un lavoratore precoce  andato in pensione anticipata, con decorrenza a partire dal 1° maggio 2018, al quale è stato revocato il trattamento pensionistico per aver lavorato dieci giorni nel mese di novembre, percependo 745,20 euro. Tanto è bastato all’Inps per rivendicare la restituzione di oltre diecimila euro, pari all’intero ammontare delle mensilità già percepite a partire dalla decorrenza del trattamento pensionistico, per cui aveva tutti i requisiti necessari. Secondo l’Istituto, il solo fatto di aver lavorato durante il periodo di divieto, ha annullato il diritto all’accesso anticipato, previsto per i lavoratori precoci dall’articolo 1, comma 199 n. 232/2016.

Analogo è il caso esaminato in un’altra sentenza emessa nello stesso anno qualche mese dopo, il 28 ottobre (n. 975/2021). Al lavoratore precoce, andato in pensione di vecchiaia, con decorrenza dal primo agosto 2020, l’Inps sospende il trattamento pensionistico pretendendo indietro tutti i ratei mensili percepiti (5.220,12 euro) per aver lavorato 15 giornate nel settembre 2020, con un guadagno di 890,40 euro, in violazione del divieto di cumulo tra pensione e reddito da lavoro subordinato.

In entrambe le sentenze, che si possono definire gemelle, il Tribunale di Firenze ha ribadito che la norma sulla incumulabilità (articolo 1, comma 204, legge 232/2016) “non menziona il preteso recupero di tutti i ratei di pensione relativi ai periodi di percezione del reddito, né la sospensione dell’erogazione della pensione anticipata fino alla maturazione dei requisiti per la pensione di vecchiaia”. Per il giudice la norma va invece interpretata nel suo significato letterale, vale a dire che non si possono sommare redditi da lavoro con quelli da pensione; e dunque la pretesa di restituzione dell’Inps deve limitarsi ad un indebito pari al reddito da lavoro effettivamente percepito. 

Lo stesso principio è stato ulteriormente ribadito nella pronuncia n. 73/2021, sempre del Tribunale di Firenze, sul caso di una pensionata con Quota cento, alla quale l’Inps ha sospeso il trattamento chiedendo la restituzione di oltre 10mila euro, per aver percepito in quattro mesi un reddito da lavoro complessivo di 1.891 euro, in violazione del divieto di cumulo.

Così come nelle altre due pronunce, il giudice ha ritenuto di dover sottolineare come “la sospensione della pensione ed il recupero integrale dei ratei di pensione erogato per il periodo corrispondente a quello di percezione del reddito, in sostanza la perdita del trattamento pensionistico, attuate da Inps, hanno natura assimilabile ad una sanzione a carico del pensionato, misura da introdursi per espressa previsione di legge”, che attualmente non è prevista.