Grazie al Patronato Inca di Treviso,  l'Inail  indennizza una lavoratrice in smart working, infortunatasi a casa mentre svolgeva la sua attività professionale. 

di Marco Bocci, Inca nazionale

#incavince!

L’emergenza pandemica ha, oramai da più di un anno, travolto le nostre esistenze, modificando non solo abitudini radicate e modelli comportamentali, ma anche la stessa organizzazione del lavoro. Sotto quest’ultimo aspetto, indicativo risulta essere l’utilizzo preponderante dello smart working, a cui le aziende continuano a ricorrere per non interrompere l’attività produttiva e per contenere i rischi di contagio tra i lavoratori. I primi dati statistici, diffusi dai principali Istituti di ricerca, ci indicano che dal 2019 al 2020, la percentuale di lavoratori impegnati nello smart working è passata dal 5% della forza lavoro al 40-50 per cento del 2020, investendo molti settori, sia pubblici che privati. 

A differenza degli altri Paesi europei, dove il lavoro da casa è da tempo un fenomeno diffuso, l’Italia si è affacciata a questa nuova modalità di lavoro con molto ritardo e soprattutto adesso, come rimedio quasi unico, per fronteggiare la grave crisi economica indotta dalla diffusione preoccupante del Coronavirus. Solo quattro anni fa, la legge n. 81 del 22 maggio 2017 ha disciplinato in via generale il lavoro agile, stabilendo la parità di trattamento economico rispetto agli altri lavoratori, ma ha lasciato diversi punti oscuri su alcuni istituti (orario, diritto alla disconnessione, ecc.),  tra cui anche l’applicabilità delle norme sulla sicurezza, in caso di infortunio sul lavoro o di malattia professionale. Lacune che la Cgil chiede da tempo di colmare con una regolazione dello smart working all’interno dei contratti di lavoro, come ha avuto modo di dichiarare più volte il segretario generale Maurizio Landini.     

Sul solco di queste valutazioni è utile riportare l’esperienza di Valentina dalle Feste, del Patronato Inca-Cgil di Treviso, relativa ad un’assistita che si è infortunata mentre lavorava da casa per la propria azienda, in ottemperanza alle disposizioni derivanti dall’emergenza Covid. Nello specifico, la dipendente era impegnata in una telefonata di lavoro con un collega, quando è scivolata sulle scale della sua abitazione, cadendo rovinosamente a terra e riportando importanti danni di natura ossea  e muscolare. Al Pronto Soccorso, la lavoratrice dichiara correttamente l’accaduto e successivamente, assistita dall’operatrice di Patronato, inoltra regolare denuncia di infortunio alla sede di competenza dell’Inail. Sul fatto che l’incidente potesse essere configurato come infortunio sul lavoro non dovevano esserci dubbi, poiché la dipendente si trovava a casa con modalità smart working,  concordata con l’azienda. Ciononostante, in prima battuta, l’Istituto assicuratore respinge la richiesta di tutela, negando il nesso di causalità collegato all’attività di lavoro.

Solo a  seguito di una seria e meticolosa attività di ricerca da parte di Valentina, supportata dalle numerose sentenze consultate, l’Inca fa ricorso contro la decisione dell’Istituto assicuratore che, riesaminando il caso, riconosce l’accaduto come infortunio sul lavoro, a cui è seguito il pagamento dell’indennità di temporanea e di un consistente indennizzo in favore della lavoratrice. “Questo caso è emblematico - commenta Silvino Candeloro, del Collegio di Presidenza dell’Inca – che dimostra come sia difficile a volte per gli Enti adeguare e applicare il diritto alle mutevoli condizioni di lavoro. Possiamo abituarci all’idea che per il futuro lo smart working possa rappresentare una opportunità di nuova occupazione, ma questo non deve significare un arretramento sul piano delle tutele”.