“Usare ogni strumento possibile per convincere i lavoratori a vaccinarsi, ma in caso di rifiuto non si deve procedere al licenziamento". A ribadirlo ancora una volta Silvino Candeloro, del collegio di Presidenza Inca, in una intervista rilasciata questa mattina a Mariangela Pani, giornalista all’Adnkronos. Per quanto risulta all’Inca, sono comunque pochi i cosiddetti no vax che si sono rivolti agli sportelli del patronato della Cgil, in cerca di tutela dall'obbligo vaccinale, anche prima del decreto del Consiglio dei ministri: circa una trentina in tutta Italia; per lo più si tratta di lavoratori della sanità. "Noi, comunque, come Patronato, abbiamo approfondito il tema da un punto di vista legale per tutelare queste persone, anche se non possiamo negare il fatto che vaccinarsi è un fatto importante perché il contagio sul luogo di lavoro è un infortunio e, come tale, dobbiamo prevenirlo".

Secondo Candeloro, in generale, "il clima intorno alla vaccinazione però non è positivo: ci sono paure legate non solo ad Astrazeneca anche da parte persone informate. Ci sono medici che ci hanno chiamato, preoccupati soprattutto per eventuali problemi che si possono produrre in un lasso di tempo più lungo".

Ricordando come da sempre il Patronato della Cgil si occupi delle condizioni di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro, sotto il punto di vista della tutela individuale contro i danni alla persona, rispetto alla obbligatorietà del vaccino anticovid, deciso ieri dal Consiglio dei ministri, Candeloro ha sottolineato la necessita di “usare tutti gli strumenti di informazione e comunicazione utili per convincere tutti i lavoratori di tutti gli ambiti (e di certi ambiti in particolare come sanità e Rsa) a vaccinarsi, perché questo è un virus che non ha dei confini. In alcune situazioni c'è un rischio specifico, ma non è che il virus si limita lì".

"Il tema dell'obbligatorietà si pone – osserva Candeloro - perché da una parte l'articolo 32 della Costituzione stabilisce il diritto della persona a curarsi o non curarsi secondo certi criteri, ma c'è anche il Codice civile, con l'articolo 2087, che sancisce il dovere del datore di lavoro di assicurare tutte le condizioni necessarie affinché il lavoratore e chi è a contatto con lui possa svolgere la mansione in sicurezza. Dobbiamo, dunque, mettere insieme questi due elementi, ma l'operazione fondamentale è spingere le persone a vaccinarsi".

Da un punto di vista degli obblighi, ricorda Candeloro, "il rischio biologico da Covid va inserito all'interno del Documento Valutazione dei Rischi (Dvr), soprattutto nelle aziende sanitarie e nelle Rsa. Una volta che il DVR è aggiornato, il datore di lavoro deve utilizzare tutti gli strumenti a disposizione per tutelare i lavoratori e, dall'altra parte, il lavoratore è obbligato a usare quegli strumenti. Ma se c'è un caso in cui un lavoratore rifiuta il vaccino in virtù dell'articolo 32 della Costituzione, il Medico Competente può valutare quella situazione e decidere che quel lavoratore o quella lavoratrice non può più svolgere quella mansione e deve svolgerne un'altra. Noi siamo per perseguire questa strada: convincere in tutti i modi la lavoratrice o il lavoratore, ma se questo non accade si deve dire che quel lavoratore non è più idoneo e si deve trovare una soluzione dove eventualmente collocarlo. Non licenziarlo. Non è facile. Per questo, noi diciamo che bisogna convincere a tutti i costi alla vaccinazione".

Anche le aziende però devono fare la loro parte, avverte Candeloro, esprimendo preoccupazione rispetto al fatto che circa 30-40% delle domande di riconoscimento da infortunio sul lavoro per Covid sono respinte dall'Inail “perché manca la denuncia da parte del datore". "Una cosa inaccettabile”, afferma. “Sarebbe auspicabile che l'Inail stesso potesse pretendere dal datore di lavoro tale adempimento”, ricordando che a fronte di una certificazione della diagnosi da covid, il datore ha l’obbligo di presentare la denuncia".

Altro aspetto preoccupante per il Patronato della Cgil è il dato complessivo sui certificati medici presentati: una parte consistente andrebbe aggiornata e trasformata da malattia comune a infortunio", perché "le due fattispecie hanno retribuzioni e trattamenti diversi". "C'è una convenzione tra Inps e Inail che dovrebbe trasformare automaticamente questi certificati, ma è difficile perché bisogna accertare se il lavoratore si sia contagiato in occasione di lavoro. So che se ne sta parlando e noi come Patronato siamo a disposizione per cercare una soluzione", conclude Candeloro.