Alcune sedi dell’INPS, riguardo al calcolo delle prestazioni legate al reddito, incorrono ancora in una errata valutazione del rispetto del tetto reddituale, alimentando indebiti a carico di cittadini che, oltre a subire nell’immediato un taglio di ciò che spetta loro, sono anche chiamati a restituire quanto già riscosso. Questo avviene  per le pensioni di reversibilità, di invalidità ma anche per tutte le altre prestazioni, il cui riconoscimento è subordinato al rispetto di determinati limiti reddituali. 

Secondo l’Inca, tutto nasce da un’applicazione errata da parte dell’Istituto di Previdenza pubblico di quanto stabilisce l’articolo 35, comma 8, del decreto legge 30 dicembre 2008, poi recepito, con modificazioni dalla legge 122/2010, che disciplina le modalità di verifica dei redditi per calcolare il diritto e la misura delle prestazioni collegate al reddito, già percepite. Dice la norma: “Ai fini della liquidazione o della ricostituzione delle prestazioni previdenziali ed assistenziali collegate al reddito, il reddito di riferimento è quello conseguito dal beneficiario e dal proprio coniuge nell'anno solare precedente. Per le prestazioni collegate al reddito rilevano i redditi conseguiti nello stesso anno per prestazioni per le quali sussiste l’obbligo di comunicazione al Casellario centrale dei pensionati di cui al Decreto del Presidente della Repubblica 31 dicembre 1971, n. 1388 e successive modificazioni e integrazioni”.

La norma, già di per sé non molto chiara, è diventata una vera e propria “spada di Damocle” per i lavoratori, titolari di una pensione di reversibilità che, quando vanno in pensione, se la vedono decurtata perché alcune sedi territoriali dell’Inps, nel verificare la sussistenza del limite di reddito, somma quello da lavoro relativo all’anno precedente con la pensione diretta, nel frattempo acquisita, duplicando in questo modo il montante reddituale complessivo del malcapitato in modo irragionevole, facendo derivare un grave danno economico per la persona, la quasi certa decurtazione della prestazione o nel peggiore dei casi, la revoca, a causa del superamento del tetto di reddito previsto dalla norma.

 Della questione è stata più volte investita la magistratura che, accogliendo molti ricorsi patrocinati dai legali di Inca Cgil, ha più volte  dichiarato l’irragionevolezza di tale interpretazione, sostenendo che si dovesse procedere a considerare uno delle due tipologie di reddito, ovvero quello di importo maggiore (spesso il reddito da lavoro).

A seguito dei numerosi pronunciamenti giudiziari, la sede centrale dell'Inps stesso se n’è convinto e, recependo anche un parere favorevole dal Ministero del lavoro, al quale aveva chiesto un chiarimento, ha corretto il tiro stabilendo però che tale criterio si dovesse applicare alle pensioni con decorrenza gennaio 2016 (messaggio  n. 5178/2015). Una toppa che, spiegano all’Inca, oltre a creare una grave sperequazione di trattamento tra la platea dei potenziali interessati, non solo non risolve alla radice il problema, lasciando privi di tutela coloro che hanno già subito il danno a partire dal 2010, anno in cui è entrata in vigore la legge 122 ma, in alcuni casi, ha continuato ad applicare erroneamente la norma anche per prestazioni successive al 2016.

Ad oggi, infatti, risultano pendenti diversi ricorsi e l’Inca,  che ha più volte sollecitato l’Istituto previdenziale a porvi rimedio invitando le proprie strutture territoriali ad applicare correttamente la normativa, riceve segnalazioni in tal senso su prestazioni successive al gennaio 2016, che smentiscono nei fatti quanto l’Inps ha già messo nero su bianco nel messaggio del 2015. A titolo di esempio, vale la pena ricordare la sentenza emessa dal Giudice del lavoro del Tribunale di Bergamo il 16 aprile dello scorso anno, con la quale è stato condannato l’Inps ad annullare il provvedimento di revoca delle pensione di invalidità civile  per l’anno 2018 e il relativo indebito.

Il caso è eloquente: l’assistita di Inca Cgil era diventata titolare di pensione di vecchiaia con decorrenza 1° febbraio 2018 e l’Inps le aveva  revocato la prestazione per il superamento del limite reddituale, determinato dalla somma dei redditi da lavoro del 2017 con quelli da pensione del 2018. Identiche segnalazioni giungono da diversi territori, assicurano all’Inca: spesso si tratta di dipendenti pubblici, titolari di “reversibilità” del coniuge, che quando acquisiscono la pensione diretta nella gestione ex Inpdap, si ritrovano, per effetto di un artificioso incremento dei redditi, con una decurtazione anche del 50 per cento della prestazione.

Ancor oggi dall’Inps si aspettano le “relative istruzioni procedurali”, promesse nel messaggio n. 5178 del 2015, dopo il parziale ripensamento sull’intera  vicenda. Così pure non ha sortito alcun effetto l’iniziativa parlamentare dei senatori Claudio Crimi, Nunzia Catalfo e Sergio Puglia che, in sede d'esame del disegno di legge di conversione del decreto-legge 30 dicembre 2016, n. 244, si erano prodigati per impegnare il Governo ad emettere opportuni provvedimenti finalizzati a sanare le situazioni di disparità, createsi a seguito della decisione dell’Inps di applicare l’interpretazione corretta della normativa soltanto alle prestazioni successive al gennaio 2016. Un impegno, caduto nel vuoto, che ancora deve essere onorato, concludono all’Inca.