La tutela Inail dei lavoratori colpiti dal Covid non deve limitarsi a considerare il periodo di cura fino alla guarigione; le conseguenze permanenti sulla salute  devono avere un’adeguata risposta. Ne è  convinto Silvino Candeloro, del collegio di Presidenza dell’Inca, rafforzando l’invito, rivolto ai lavoratori e alle lavoratrici, a denunciare i casi di contagio in occasione del lavoro, per far sì che prevalga un’idea alta di protezione antinfortunistica e non limitata all’emergenza sanitaria.

Secondo il Patronato della Cgil, il preoccupante aumento delle denunce rilevate dall’Inail (oltre 100mila a fine 2020, con una incidenza del 21% rispetto agli infortuni su lavoro complessivamente considerati) sta a dimostrare che c’è una crescente domanda di tutela individuale, che non si può più ignorare e su cui va avviata una seria riflessione: gli interrogativi, anche medico legali, vanno ben oltre l’applicazione sic et simpliciter di quanto già previsto dalla legislazione vigente – dal testo Unico 1264/65 e dai decreti 38/2000 e 81/2008 -; primo fra tutti quello riguardante la tutela dei postumi da Coronavirus, argomento sul quale non ci sono evidenze scientifiche, ma sulle quali si stanno stratificando esperienze di vita vissuta di tante persone contagiate, che si rivolgono in questo periodo agli operatori e alle operatrici dell’Inca. “Nessuno è in grado di rassicurare il lavoratore sul fatto che, superato il periodo di contagio, senza apparenti conseguenze fisiche, non si possano presentare dei sintomi peggiorativi a distanza di mesi, o addirittura di anni”, precisa Candeloro.

Ad oggi non si sa, per esempio, quali sono le conseguenze permanenti sui cosiddetti “organi bersaglio”, come l’ apparato respiratorio, o quali siano quelle sull’apparto cardiocircolatorio e muscolare. Diversamente, negli ex malati Covid assumono un rilievo determinante tutte quelle patologie riconducibili alla sindrome ansioso-depressiva e che, allo stato attuale, non possono essere riconosciute come conseguenza diretta dell’infezione virale.

Una ragione in più che supporta la scelta dell’Inca Cgil di invitare i lavoratori e le lavoratrici a denunciare i contagi, perché solo attraverso il loro riconoscimento da parte di Inail come infortunio sul lavoro, può essere effettuata, per gli anni venire, una corretta ricognizione della salute del lavoratore, con la possibilità, anche a distanza di 10 anni, di avanzare la richiesta di revisione, in caso di un eventuale aggravamento delle proprie condizioni di salute, con la prospettiva di ottenere un indennizzo in capitale, che a volte è abbastanza consistente, per postumi permanenti superiori alla franchigia del 6%.

Per Inca, in buona sostanza, anche se per avviare la denuncia di contagio ci sono 3 anni di tempo, prima la si fa e ancor più agevole diventa l’analisi delle circostanze in cui si è verificato, poiché sono facilmente reperibili eventuali testimoni o documentazioni aziendali, a supporto della richiesta di tutela. Premesse ancor più indispensabili considerando che non c’è alcun automatismo nell’individuare eventuali responsabilità da parte dei datori di lavoro, che vanno comunque accertate e opportunamente documentate.

“Non c’è nessun atteggiamento punitivo pregiudiziale nei confronti delle imprese – rassicura Candeloro –, ma vogliamo affermare che senza un’adeguata e piena tutela  dei lavoratori e delle lavoratrici anche sui postumi della pandemia, il nostro paese rischia seriamente di fare passi indietro sul piano della prevenzione e della sicurezza nei posti di lavoro. Purtroppo, siamo di fronte ad un nemico subdolo, e i lavoratori devono avere chiara la percezione che rinunciare ad un diritto oggi potrebbe equivalere a non poter rivendicare una tutela in futuro”.

Per fugare i dubbi di chi ha ancora delle remore a denunciare, l’Inca ricorda che per il lavoratore contagiato, costretto ad assentarsi dal lavoro, vige il diritto alla conservazione del posto di lavoro fino alla guarigione, senza vedersi ridurre il cosiddetto periodo di comporto (generalmente di 180 giorni).

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