Una sentenza della Corte d'Appello di Torino, in sede di riesame, stabilisce che per il risarcimento del danno terminale sono inadatte le Tabelle di Milano. Ne parliamo con l'avvocato Laura D'Amico, legali di Inca, che ha difeso gli interessi degli eredi di un ex dipendente della Michelin Italiana, deceduto per mesotelioma pleurico professionale, causato da 30 anni di esposizione all'amianto.  

di Lisa Bartoli 

La tutela risarcitoria per una malattia professionale non può essere la stessa prevista per un incidente stradale o per un infortunio sul lavoro a cui segua dopo poco tempo la morte. Questo soprattutto se in gioco c’è la perdita della salute e della vita (cioè il danno biologico terminale o catastrofale). E’ quanto ha stabilito la Corte d’appello di Torino, con la sentenza n.270/20220, affermando l’inapplicabilità tout court delle Tabelle di Milano, cui si fa sempre più frequentemente riferimento nelle aule giudiziarie, da cui deve derivare una doverosa “personalizzazione” dei danni non patrimoniali, che tenga conto di ogni specifica circostanza riferita al caso concreto. Il verdetto, il secondo per la Corte d’Appello di Torino, interviene dopo il pronunciamento della Cassazione, che aveva parzialmente riformato quello già emesso nel 2013 (n. 287/13) dalla stessa Corte, pur in diversa composizione.

Il caso esaminato riguarda un ex lavoratore della Michelin Italiana (dipendente dal 1957 al 1987), in pensione, deceduto a 72 anni, nel 2006, a causa di un mesotelioma pleurico di origine professionale, i cui eredi hanno dovuto aspettare sinora ben 4 sentenze affinché fosse individuato il giusto risarcimento. Un contenzioso cominciato nel 2012, per iniziativa dell’avvocato Laura D’Amico, legale di Inca, che ha attraversato i tre gradi di giudizio, conclusosi soltanto nel novembre 2020, con il verdetto della Corte d’appello di Torino (n. 270/20220), che ha dovuto riesaminare il caso per la seconda volta, dovendo applicare in principio di diritto espresso dalla Cassazione (sentenza n. 12041/ del 19 giugno scorso), che aveva auspicato l’applicazione delle tabelle di Milano nel calcolare il danno patito dal lavoratore dal momento della diagnosi al momento della morte. Ciò che la Corte d’Appello ha fatto solo molto parzialmente, avendo riscontrato la sostanziale inadeguatezza dei criteri tabellari milanesi in ipotesi, come nel caso specifico, di un tumore polmonare che porta a morte dopo qualche anno di sofferenza. Di qui l’importanza della sentenza, al momento non ancora definitiva (potendo teoricamente la Michelin nuovamente ricorrere per Cassazione).

Perché tanti anni?

D'Amico. “Da tempo capita che la maggior parte dei Giudici del merito, dovendo scegliere quale criterio adottare nel calcolare danni di non facile individuazione (quali quelli di un lavoratore, malato di cancro professionale, con un’aspettativa di vita ridotta) applicano acriticamente dette tabelle i cui principi ispiratori tengono unicamente conto di casi di morti (prevalentemente per incidenti stradali o infortuni sul lavoro mortali) che intervengono mediamente a brevissimo o comunque breve tempo dall’evento (ipotesi personalizzate con riferimento a morti che intervengano entro i primi 100 giorni). Criteri dunque che possono sottostimare fortemente i gravissimi danni patiti dal lavoratore, senza che vi sia anche da parte dell’Avvocatura alcuna contestazione”.

Qual è la principale novità della sentenza della Corte d’appello di Torino? 

D'Amico. Occorre preliminarmente ricordare che  la Corte d’Appello di Torino era vincolata al principio di diritto fissato dalla Cassazione in sede di annullamento con rinvio, dovendo pertanto dar conto dell’applicazione delle tabelle di Milano. Ciò è stato fatto peraltro discostandosi sostanzialmente da dette tabelle, dopo averne individuato e criticato i limiti intrinseci, laddove il caso concreto riguardi un’ipotesi di morte che intervenga a distanza di tempo dalla diagnosi, come nel caso in questione. Ciò dopo aver riaffermato i criteri di ‘proporzionalità e di equità’, che restano principi fondamentali per quantificare il giusto risarcimento. Troppo comodo, troppo facile sarebbe limitarsi ad una ragionieristica applicazione delle tabelle, di schemi fissi, che di fatto consentirebbero al Giudicante un indebito appiattimento di  valutazione del caso per caso, senza andare a ricercare, analizzare e valutare l’eventuale presenza di specificità, senza, dunque assolvere a quell’obbligo, con rigore da sempre richiamato dai Supremi Giudici, di personalizzare caso per caso. Il giudice non è infatti chiamato ad applicare criteri meramente indennitari, ma precisi criteri risarcitori, tali dunque da poter, e dover, compiutamente valutare e comprendere tutti gli aspetti di danno patiti e lamentati, purché, ovviamente, provati.

Da dove scaturisce questo atteggiamento dei giudici?

D'Amico. “Dal fatto che inizialmente, e prevalentemente, gli orientamenti giurisprudenziali elaborati si sono formati, come detto, valutando per lo più casi infortunistici (di lavoro o stradali), dunque, lesioni provocate da cause violente che prevedevano un esito mortale nel giro di poco tempo (poche ore, mediamente pochi giorni o poche settimane). Un indirizzo che ha fortemente condizionato poi i criteri adottati dall’Osservatorio del Tribunale Civile di Milano (con il quale collaborano anche medici e avvocati di riferimento delle maggiori compagnie di assicurazione italiane), che non sono certo partiti dall’esame della casistica delle malattie professionali, specie quelle di natura oncologica, che provocano la morte dopo un periodo spesso non breve di sempre maggiori sofferenze.

Le conseguenze di un incidente stradale sono oggettivamente diverse da quelle derivanti da una malattia professionale oncologica....

D'Amico. “Certamente sì. Le patologie tumorali si caratterizzano, purtroppo, per una durata, di certo non limitata come quella considerata dalle Tabelle milanesi (massimo100 giorni), per un aggravarsi  delle condizioni fisiche e psichiche del lavoratore colpito da cancro, da cui scaturisce un danno non patrimoniale, quale quello morale e catastrofale, che  tende ad accrescersi a dismisura mano a mano che si avvicina il momento della morte. Un conto è morire dopo alcuni giorni, alcune settimane a seguito di causa violenta, come succede nella gran parte degli incidenti stradali e degli infortuni sul lavoro mortali, altro conto è giungere a morte consapevole dopo mesi, anni di sempre più intense sofferenze. Si pensi alle cause, oramai consuete anche nelle aule di giustizia, per mesotelioma o per tumori polmonari o vescicali”.

Quali saranno le conseguenze di questa sentenza?

D'Amico. “L’auspicabile conseguenza è che nelle aule di giustizia Giudici del merito ed avvocati studino con maggior attenzione i criteri ispiratori delle tabelle di Milano; ne individuino la assoluta inadattabilità ai casi, quale il nostro, di malattie professionali; condividano le critiche radicali formulate dalla Corte d’Appello di Torino, rimettendo dunque finalmente in discussione l’aprioristica applicazione delle tabelle di Milano, che da troppo tempo si sta subendo con riferimento ai criteri di calcolo del danno terminale. Un nuovo e più serrato confronto e dibattito sul tema da parte degli operatori del diritto, ulteriori sentenze di merito che finalmente affrontino con rigore tale delicato tema non potrà che trovare eco anche presso i Giudici della Suprema Corte di Cassazione, negli ultimi tempi aperti fautori dell’applicazione delle tabelle di Milano, probabilmente inconsapevoli delle intrinseche criticità correttamente individuate dalla Corte d’Appello di Torino. L’auspicio è che si apra una nuova stagione giudiziaria che veda impegnati in prima linea, in modo altamente qualificato, innanzitutto gli avvocati che da sempre difendono i lavoratori (e i loro congiunti) a cui deve essere garantita reale giustizia. 

Il testo della sentenza