Riconoscimento di una malattia professionale (discopatia) su un marinaio: un caso inedito per il Tribunale di Perugia. 

Al pari degli autisti, anche i marinai possono ammalarsi a causa delle vibrazioni subite nello svolgimento delle loro mansioni: la prolungata esposizione al moto ondoso di una nave può provocare una discopatia di origine professionale e dunque meritevole della tutela Inail. A stabilirlo il Tribunale di Perugia, nella sentenza n. 133/2020, facendo riferimento all’incessante rollio e beccheggio di una imbarcazione, come possibili cause di una importante tecnopatia, quale l’ernia discale lombare. Il verdetto in sé non è una novità per altre sedi giudiziarie, ma è la prima  volta per il Tribunale di Perugia, che ha accolto il ricorso promosso da uno dei legali dell’Inca Cgil Nazionale, avv. Catia Mosconi del Foro di Perugia, riconoscendo l’origine professionale di una ernia discale sofferta da un lavoratore marittimo, per 40 anni  alle dipendenze di varie compagnie di navigazione, prima come mozzo, poi come ufficiale di coperta ed infine come comandante.

Una lunga carriera, che lo ha portato a ricoprire varie qualifiche dal  1975 al 2016: come addetto alla guardia in plancia durante la navigazione, e alle operazioni sui ponti, in garage e in porto; per mesi continuativamente imbarcato su navi “roll on roll off” (traghetti destinati al trasporto dei mezzi pesanti). Nell’ ultimo periodo, inoltre, aveva svolto le sue mansioni a bordo di unità veloci destinate alla rotta tra Termoli  e le isole Tremiti.

La domanda di riconoscimento dell’origine professionale della malattia, inoltrata all’Inail nel 2015, è stata rigettava dall’Istituto per l’assenza dello “specifico rischio”. Un diniego che ha reso, pertanto, necessario il ricorso alle vie legali, conclusosi con la sentenza di primo grado, emessa a luglio di quest’anno, che ha invece riconosciuto il nesso causale tra lavoro svolto e patologia, quantificando una percentuale dei postumi permanenti pari all’8%.

Ad influire sulla decisione del giudice è stata decisiva la descrizione dettagliata delle condizioni di lavoro: mansioni che consistevano principalmente nella gestione delle manovre di arrivo e partenza dell’imbarcazione, nel coordinamento delle operazioni di imbarco e sbarco dei mezzi, nella gestione delle necessarie attività, quali la chiusura dei portelloni, la gestione dei cavi di ormeggio durante le manovre di ormeggio e disormeggio della nave.

Operazioni, giova poi ricordare, che costringevano il lavoratore a rimanere continuativamente imbarcato anche per 60 giorni, con la conseguenza di essere esposto ai movimenti della nave anche al di fuori dell’orario lavorativo, che comportavano una elevata esposizione a vibrazioni, insistenti in special modo sul tratto lombare. Circostanza non secondaria, come infatti è stato ben evidenziato da un teste, sentito nel procedimento: “…sia in porto che in mare la nave è sottoposta a vibrazioni notevoli; in porto ciò è dovuto al funzionamento dei gruppi elettrogeni, al movimento dei mezzi pesanti che vengono imbarcati e sbarcati –durano non meno di sette ore le operazioni di imbarco e sbarco di tali mezzi – ed anche al movimento dei ventilatori ed estrattori per il riciclo di aria da bonificare dai gas di scarico. Durante la navigazione tali vibrazioni sono dovute ai motori in uso ed alle eliche….quando poi le condizioni atmosferiche sono avverse, le vibrazioni sono amplificate, sia in fase di rollio (quando la nave si sposta da destra a sinistra) o di beccheggio (quando la nave ondeggia da pruna a poppa)”.

Ed è stata proprio la linearità, la coerenza e la assoluta attendibilità dei vari testi sentiti nel procedimento, che hanno permesso al giudice di fondare il suo giudizio in favore del lavoratore marittimo, supportato, peraltro, anche dalla Consulenza Tecnica d’Ufficio, giunta alla stessa conclusione prendendo a specifico riferimento oltre alla “Valutazione del rischio Tirrena S.p.a”, anche, e soprattutto, il “Quaderno di formazione per la sicurezza sul lavoro IPSEMA 2009”. Una documentazione che invece l’Inail di Perugia, nell’esaminare la domanda di riconoscimento  della malattia professionale, sembra non aver preso minimamente in considerazione.

Il consulente, infatti, ha ritenuto che tra gli elementi di rischio a bordo ci sia proprio il moto ondoso della nave, che “…può essere paragonata ad una piattaforma dotata di mobilità da cui si generano vibrazioni che sono trasmesse al corpo umano”, con un “impegno muscolare e quindi uno sforzo, sia statico che dinamico”, da cui derivano danni all’organismo, tali da produrre effetti come le discopatie lombo-sacrali.

“La recente sentenza del Tribunale di Perugia – commenta Silvino Candeloro, del collegio di Presidenza Inca – dimostra come anche quando si è di fronte a circostanze inedite, come quello esaminato dal Tribunale di Perugia, è possibile ottenere, attraverso  le testimonianze dei lavoratori coinvolti e una valida consulenza tecnica, risultati importanti per una più ampia tutela della salute nei luoghi di lavoro. Il Tribunale di Perugia, ben poco avvezzo a valutare l’esposizione ai rischi professionali dei lavoratori marittimi, rappresenta un importante passo avanti in questa direzione”.

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