Bonus bebé e assegno di maternità ai soggiornanti di lungo periodo: Con la sentenza della Consulta un doppio risultato. Il commento di Amos Andreoni e Vittorio Angiolini, consulenti legali Inca Cgil 

La Corte Costituzionale, sulla questione del bonus bebè negato agli extracomunitari privi del permesso di lungo soggiorno – questione promossa dall'Inca e inizialmente seguita nei precedenti gradi dall’avv. Luca Santini e poi, avanti la predetta Corte e la Corte di Giustizia, dagli avv.ti prof.ri Amos Andreoni e Vittorio Angiolini – con la sentenza n. 54/2022 ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 125, legge 23 dicembre 2014 n. 190 in relazione agli artt. 3, 31 e 117 Cost. nonché all’art. 34 della Carta dei diritti fondamentali della UE. 

La Corte, similmente, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 74 d. lgs. n. 151/2001 nella parte in cui egualmente esclude l’assegno di maternità. In precedenza sulle stesse due questioni, in relazione all'ordinamento UE, la Corte di giustizia europea (Grande Sezione), con la sentenza del 2 settembre 2021, aveva già dichiarato che: “L’articolo 12, paragrafo 1, lettera e), della direttiva 2011/98/UE relativa a una procedura unica di domanda per il rilascio di un permesso unico, deve essere interpretato nel senso che esso osta a una normativa nazionale che esclude i cittadini di paesi terzi di cui all’articolo 3, paragrafo 1, lettere b) e c), di tale direttiva dal beneficio di un assegno di natalità e di un assegno di maternità previsti da detta normativa.”

La Corte Costituzionale ha confermato detta pronuncia aggiungendo che la normativa italiana, laddove esclude il bonus bebè e l’assegno di maternità agli extracomunitari privi di permesso di lungo soggiorno, viola altresì gli artt. 31 e 3 Cost. È stata dunque ampiamente confermata la linea difensiva promossa dall'Inca e dai suoi avvocati, rappresentata ampiamente nelle sedi di merito e di legittimità.

Al riguardo era stato infatti evidenziato che, secondo la giurisprudenza costituzionale, il principio di eguaglianza posto dall'art. 3 non tollera disparità di trattamento ricollegabili al solo fatto di essere inflitte a chi risulti “straniero”, ossia non cittadino italiano: giacché, per dirla con le parole della Corte, “pur potendo il legislatore valorizzare le esistenti differenze di fatto tra cittadini e stranieri (sentenza n. 104 del 1969), esso non può porre gli stranieri (o, come nel caso di specie, una certa categoria di stranieri) in una condizione di “minorazione” sociale senza idonea giustificazione, e ciò per la decisiva ragione che lo status di straniero non può essere di per sé considerato «come causa ammissibile di trattamenti diversificati e peggiorativi» (così la sent. n. 186 del 2020).

In questa prospettiva, non c' è dubbio che l'art. 1, comma 125 della l. n. 190 del 2014, nel disciplinare l'assegno a sostegno della “natalità”, metta “i figli (...) di cittadini di Stati extracomunitari” in una condizione deteriore, e dunque di “minorità”, rispetto a “i figli di cittadini italiani o di uno Stato membro dell'Unione europea”; poiché solo appunto per gli “stranieri” extracomunitari, a differenza dei cittadini italiani ed europei, è imposto il requisito del “permesso di soggiorno di cui all'articolo 9 del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, e successive modificazioni”; il quale permesso dell'art 9 del testo unico presuppone, come la Corte stessa ha ricordato nell'ord. n. 182 del 2020, “il «possesso, da almeno cinque anni, di un permesso di soggiorno in corso di validità» e la dimostrazione della «disponibilità di un reddito non inferiore all’importo annuo dell’assegno sociale e, nel caso di richiesta relativa ai familiari, di un reddito sufficiente secondo i parametri indicati nell’articolo 29, comma 3, lettera b) e di un alloggio idoneo che rientri nei parametri minimi previsti dalla legge regionale per gli alloggi di edilizia residenziale pubblica ovvero che sia fornito dei requisiti di idoneità igienico-sanitaria accertati dall’Azienda unità sanitaria locale competente per territorio»”.

Quanto poi all'art. 31 Cost., occorre considerare, per un verso, che esso si inserisce tra le norme a tutela della famiglia, a completamento della disciplina dettata dagli artt. 29 e 30 Cost., e che, per un altro verso, tutte queste disposizioni scandiscono tutele le quali, sia in quanto riferite alla famiglia come “unità” sia in quanto riferibili ai componenti del cd. “nucleo” famigliare (genitori e figli), corrispondono alla protezione di “diritti inviolabili dell'uomo” (art. 2 Cost.), per cui in partenza sono bandite differenziazioni di regime tra le persone in rapporto alla cittadinanza.

La stessa previsione dell'art. 29, comma 1 Cost., per cui la famiglia è “società naturale”, sia pur temperata dal rimando all'essere la stessa fondata sul “matrimonio”, denota la consapevolezza dell'anteriorità della famiglia rispetto ad ogni sovrastante legame statale e depone a favore dell'essere i diritti famigliari della persona umana come tale. In questo quadro, l'art. 31 Cost. pone un principio, di tutela nella famiglia con “misure economiche” rivolte all'“adempimento dei compiti” anche verso i figli e con particolare riguardo alle “famiglie numerose”, il quale, afferma il valore preminente della protezione da accordare nella vita familiare ai figli minori.

L'art. 1, comma 125 della l. n. 190 del 2014, dunque, viola anche l'art. 31 Cost., sin da quando, differenzia ed aggrava i requisiti per l'accesso all'assegno di “natalità” per i soli “figli (...) di cittadini di Stati extracomunitari”; giacché - la violazione dell'art. 31 Cost. è cominciata assai prima, sin da quando il legislatore italiano ha scelto, addirittura per l'aiuto da dare alla famiglia in relazione alla loro nascita, di differenziare la situazione di piccoli bambini in forza della cittadinanza dei genitori.

Tali considerazioni sono state fatte proprie dalla Corte Costituzionale laddove ha affermato (v. punto 13.3. e segg. in diritto) che: <<nel condizionare il riconoscimento dell’assegno di natalità e dell’assegno di maternità alla titolarità di un permesso di soggiorno in corso di validità da almeno cinque anni, al possesso di un reddito non inferiore all’importo annuo dell'assegno sociale e alla disponibilità di un alloggio idoneo, il legislatore ha fissato requisiti privi di ogni attinenza con lo stato di bisogno che le prestazioni in esame si prefiggono di fronteggiare.

Nell'introdurre presupposti reddituali stringenti per il riconoscimento di misure di sostegno alle famiglie più bisognose, le disposizioni censurate istituiscono per i soli cittadini di Paesi terzi un sistema irragionevolmente più gravoso, che travalica la pur legittima finalità di accordare i benefici dello stato sociale a coloro che vantino un soggiorno regolare e non episodico sul territorio della nazione.

Un siffatto criterio selettivo nega adeguata tutela a coloro che siano legittimamente presenti sul territorio nazionale e siano tuttavia sprovvisti dei requisiti di reddito prescritti per il rilascio del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo. Un sistema così congegnato pregiudica proprio i lavoratori che versano in condizioni di bisogno più pressante.

13.4.- Né sono proponibili nel caso di specie le considerazioni svolte da questa Corte nella sentenza n. 50 del 2019 con riguardo all'assegno sociale, peraltro escluso dall' ambito di applicazione della direttiva 2011/98/UE e del correlato principio della parità di trattamento.

L'assegno sociale si colloca all’epilogo della carriera lavorativa e rappresenta il corrispettivo per il contributo offerto al progresso della comunità. Tale caratteristica non si ravvisa nelle provvidenze oggi all'esame di questa Corte. Esse presuppongono l'insorgere di una situazione di bisogno, in una stagione della vita - quella della nascita di un bambino o della sua accoglienza nella famiglia adottiva - che prescinde dal contributo fornito al progresso della comunità.

13.5.- Gli elementi indicati confermano che un criterio di attribuzione incentrato sulla titolarità del permesso per soggiornanti UE di lungo periodo discrimina arbitrariamente sia le madri sia i nuovi nati e non presenta alcuna ragionevole correlazione con la finalità che permea le prestazioni in oggetto>>. La pronuncia appare di rilevante valore giuridico e politico, sia per il suo dettato antidiscriminatorio sia per il suo valore di contrasto alla preoccupante denatalità e povertà familiare